lunedì 17 maggio 2010

Il dolore

Epifania del dolore umano

L’atroce “banalità del male” del Novecento ha la voce e il corpo di Mariangela Melato nella trasposizione scenica dello straziante libro Il dolore di Marguerite Duras, firmata dalla stessa attrice e dal regista Massimo Luconi. Piccolo e prezioso capolavoro teatrale, il monologo sintetizza in poco più di un’ora l’esperienza devastante dell’attesa vissuta dalla scrittrice francese in occasione dell’auspicato e, mai certo, ritorno del marito Robert, deportato a Dachau. Il mistero sull’eventualità di un prossimo incontro, il panico per un destino segnato non conoscibile, l’impotenza umana e soprattutto femminile davanti a un mondo ingiusto che sacrifica le sue creature sono incarnate dalla più completa e travolgente delle interpreti del nostro panorama scenico con una prova che supera ogni perfezione tecnica per fluire naturalmente nella dimensione emblematica dell’arte.

Recitano il fisico emaciato, la parola scarnificata, l’emotività nuda e fragilissima, la gestualità autentica, l’aura smarrita alla ricerca della condivisione empatica con il pubblico, in un lavoro che diventa confessione, preghiera, urlo dell’anima. Mariangela Melato si fonde con l’avventura esistenziale della Duras e la sublima in travaglio cosmico, universale, alieno da connotazioni spaziali e temporali, e radicato profondamente nella vita delle donne di ogni epoca, ma anche nelle vittime innocenti di ogni guerra, nei personaggi attoniti e stritolati di ogni tragedia.

Nel silenzio di Dio, il nemico è il male, ineffabile, con cui la battuta teatrale da millenni si confronta a sondare il suo limite metafisico e comunicativo. Eppure il palcoscenico vince ancora una volta la sua battaglia contro la società che lo produce e lo ghettizza perché la gente che solitamente non ha voglia di ascoltare è lì presente, concentrata e coinvolta, responsabile e accogliente, bramosa di assistere a una cerimonia inusitata e di celebrare un “rito culturale” di cui forse non potrà più fare a meno. La sacerdotessa che ha annullato la storia per parlare dell’umano in un eterno presente ha il volto e il talento della minuta e immensa Mariangela Melato che officia in un istintivo e perciò stupefacente e generoso dono di sé.

Gli applausi scroscianti la chiamano all’infinito e lei si concede di frenarli per ringraziare una platea che ha percepito viva e complice: la magia del teatro si è compiuta e qualche anima è stata salvata dall’incoscienza. E’ la purezza dell’arte, unico strumento di sopravvivenza contro il dolore, unico baluardo umano contro il male.


AL TEATRO VALLE DI ROMA FINO AL 23 MAGGIO

mercoledì 12 maggio 2010

Fiorello Show Tour

Fiorello è puro teatro

Emblema dell’artista scenico contemporaneo, poliedrico e funambolico istrione di inarrivabile talento, Fiorello registra il tutto esaurito in ogni tappa del suo “Fiorello Show Tour”. A dispetto dell’ingratitudine del piccolo schermo, a cui ha regalato esperienze memorabili insegnando come usare lo strumento televisivo a chi da troppo tempo lo presidia e non ha neppure imparato nulla, il pubblico premia il suo beniamino con gli ascolti radiofonici e soprattutto con la presenza record a tutte le sue performance sul palcoscenico. 250 mila persone hanno già assistito a questo spettacolo che ha una struttura incentrata su un filo narrativo di base, ma non si presenta mai uguale a se stesso, attingendo al guizzo creativo del suo protagonista. Cantante, comico, imitatore, ma soprattutto mattatore ineguagliato di inconsapevole sapienza espressiva e di lungimirante modernità, Fiorello sa come rendere originale ogni serata, nutrendosi della sua ispirazione del momento in un flusso di storie e brani musicali che sanno emozionare e coinvolgere gli spettatori per oltre due ore con un ritmo serrato e travolgente, destinato a lasciare tutti senza fiato. Accompagnato dal maestro Enrico Cremonesi e dalla sua orchestra, una band composta da dodici elementi, riesce a trasformare gli eventi dell’attualità e gli aspetti del quotidiano in passaggi geniali ed esilaranti di satira, viaggiando fra i paradossi della nostra società con ironia garbata, acuta e graffiante, non aliena da una meditata interpretazione della realtà. Il racconto si sviluppa in una tessitura di gag e aneddoti di vita vissuta, spaziando fra canzoni di ieri e di oggi, magistralmente eseguite dalla più duttile e versatile delle voci italiane.

Immancabile la vivacità estemporanea dell’improvvisazione in cui Fiorello è un maestro proverbiale e sublime, mai prevedibile e straordinariamente unico nel suscitare l’ilarità senza ricorrere a toni o battute volgari. Nella cornice tecnologica di una scenografia all’avanguardia e ricca di un sofisticato gioco di luci, ledwall ed ologrammi, si racconta la storia dell’Italia, dal passato al presente, con un excursus sull’evoluzione della canzone nazionale. Diretto dalla sorvegliata e poco invadente regia di Giampiero Solari, il “Fiorello Show Tour” ha come motore centrale tutta la caleidoscopica dimestichezza con l’esibizione dal vivo di un artista autentico e completo come ne esistono davvero pochi in questi ultimi anni, ma si avvale anche dell’impegno dietro le quinte di una squadra di autori che lo assecondano da anni, formata da Francesco Bozzi, Riccardo Cassini, Alberto Di Risio e Federico Taddia, con la collaborazione ai testi di Pierluigi Montebelli. Da non perdere!

Il Fiorello Show Tour, prodotto dalla Live Tour, ancora oggi si va arricchendo di nuove date e, dopo aver fatto ritorno già in 7 città, nei prossimi mesi, farà tappa: il 29 maggio a Bari, il 4 e 5 giugno a Napoli, il 12 giugno a Piazzola sul Brenta (PD), il 18 giugno a Trieste, il 25 giugno ad Ancona, il 4 luglio a Lucca, il 9 luglio a Cagliari, il 10 settembre a Palermo.

giovedì 6 maggio 2010

Copenaghen

Tre attori perfetti per un caso scientifico irrisolto

E’ sicuramente “un processo privato a porte chiuse”, come ama definirlo il suo regista Mauro Avogadro, ma è ormai soprattutto uno spettacolo di culto “Copenaghen” di Michael Frayn, capolavoro scenico di un trittico d’interpreti d’eccezione come Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio che fin dal suo debutto all’India dieci anni fa ha messo d’accordo la critica meno reazionaria e asservita e il pubblico più scaltro e appassionato.
Niels Bohr (Orsini) e Werner Heisenberg (Popolizio) sono due delle più brillanti menti scientifiche del ventesimo secolo e la questione nodale della pièce è trovare finalmente un senso all’incontro che nel settembre 1941 li vide faccia a faccia nella capitale danese, mentre attorno a loro infuriava la seconda guerra mondiale. Ancora oggi, quando i loro spiriti tornano a rivivere i momenti cruciali di quella notte fatale, insieme a Margrethe, la moglie di Bohr, molti degli interrogativi di allora sembrano restare irrisolti o “indeterminati”, come l’omonimo principio fisico che lo stesso Heisenberg enunciò per primo. Perché Heisenberg, il fisico Premio Nobel che diresse le ricerche tedesche per la bomba atomica, si recò a incontrare il suo vecchio mentore, il fisico Niels Bohr, un ebreo danese, cittadino scomodo in una Copenaghen occupata dai nazisti?

Miracoloso e magico confronto tra scienza e teatro, fra documentazione storica e fantasia drammatica, fra indagine psicologica e talento recitativo, questo lavoro apre una nuova prospettiva al panorama scenico italiano, proiettandolo in una dimensione internazionale.
Nell’impossibilità di chiarire in maniera inequivocabile le ragioni di un appuntamento avvolto dal mistero, l’allestimento dimostra tuttavia quanto il teatro possa essere il mezzo ideale per parlare e riflettere su temi importanti e attuali in una trama da thriller scientifico che ripercorre la storia dell’ultimo conflitto mondiale. Fra teorie, formule e disquisizioni sottilmente scientifiche, lo spettatore è chiamato a rivivere i dilemmi di chi, con i suoi studi e la sua esperienza personale, ha dovuto fare i conti con la sostanziale fuggevolezza della verità e del senso delle cose, e a porsi gli stessi interrogativi morali o le medesimi questioni cruciali.
Il tutto assicurato dalla complicità di tre delicati, sensibili e travolgenti attori che affidano le loro doti innate e acquisite alla qualità del disegno registico di Mauro Avogadro, un tracciato studiato per rendere espliciti i diversi piani narrativi e i molteplici intrecci in cui si sviluppa la drammaturgia, con cui si realizza felicemente un’operazione che conferma al teatro il privilegio di essere un luogo d’elezione per riscoprire il valore e la forza delle relazioni umane.

AL TEATRO ELISEO DALL'11 AL 23 MAGGIO

Arnoldo Foà, Autobiografia di un artista burbero, Sellerio, 2009

Ritratto di un eterno ragazzo

Si legge tutto d’un fiato, in ordine cronologico o aprendo a caso, il libro schietto e credibile a cui Arnoldo Foà ha donato le sue memorie di uomo prima ancora che di artista. Dall’infanzia alla scoperta traumatica e inaspettata della persecuzione in quanto ebreo, dagli impegni teatrali sotto falso nome per sfuggire alle leggi razziali alla gloria di palcoscenico, cinema e televisione, dagli amori travolgenti e passionali ai sacrifici economici, il percorso di una lunga vita si snoda rapido e incisivo, grazie a uno stile parlato diretto quanto accurato e pertinente. Si incontra così una figura consapevole e indipendente che attraversa l’esistenza con coraggio e infinita levità, non lasciandosi mai contaminare dagli altri, anche i più amati, né dalla fama e dal successo.


Foà si rivela prima tutto attaccato ai valori essenziali dell’umanità, dimostrando di saper rinunciare a ogni garanzia materiale e di poter ricominciare da capo dopo ogni sconfitta. Indomito e umile, eppure mai servile anche quando difendere la sua integrità significa perdere la protezione di registi o colleghi importanti, non è disposto a tradire le sue idee o la sua natura caratteriale, affrontando la professione con scrupolo, zelo e perfezionismo, senza tuttavia diventare mai schiavo della notorietà. Ogni persona che si affaccia al rapporto con lui viene descritta nella sua autenticità, tenendosi lontano da giudizi ed etichette, in un mutuo scambio di esperienze che diventa crescita comune nel reciproco rispetto della propria diversità. E nelle pagine scorre la linfa di tanta storia del nostro travagliato Paese in sintonia con una deliziosa ricostruzione dei tempi d’oro del teatro italiano: Foà è l’anziano saggio che la narra ai posteri, ma scopre soprattutto la sua immagine di artista, eterno bambino che prova stupore e curiosità per il mondo. Si definisce "burbero" per la sua esigenza di correttezza e verità, in realtà è "benefico" nella sua necessità di esprimersi senza dare lezioni a nessuno, non indulgendo alla potenza da mattatore e consegnandosi a quell’immortalità che soltanto l’arte ha per scopo.