domenica 5 ottobre 2014

Uscirò dalla tua vita in taxi


Un taxi per doppia coppia in fuga

Il successo internazionale di K. Waterhouse e W. Hall Uscirò dalla tua vita in taxi, al Teatro Ghione fino al 12 ottobre, si avvale dell'adattamento e della regia di Pino Ammendola, un autore che di ingranaggi e ritmi comici se ne intende bene da anni e ha ora deciso di offrire al pubblico italiano una sua versione della nota e collaudata macchina scenica.


Complice un quartetto d’interpreti perfetto nei ruoli e nelle dinamiche, formato da Franco Castellano, Maria Letizia Gorga, Maximilian Nisi e Ketty Roselli, si anima un gioco di equivoci, scambi, colpi di scena e soluzioni imprevedibili che mette in risalto la quintessenza del teatro brillante. 


Resta in piedi l’ambientazione inglese, con tanto di colonna sonora dei Beatles, in una scenografia essenziale ed evocativa con cabina telefonica rossa ed elenco degli abbonati d’epoca, affidando agli attori il non facile compito di cimentarsi con uno stile vagamente d’altri tempi per affrontare tematiche eterne come l’amore. Un appartamento prestato in segreto per appuntamenti clandestini, un matrimonio perennemente in crisi per le scappatelle del consorte e un legame che non s’ha da fare per timore di perdere la propria libertà fra coniugi reali o inventati mescola le carte di una partita a quattro senza vincitori né vinti. Solidarietà maschili e femminili si creano e si distruggono in un profluvio incandescente di battute spietate anche se mai volgari. 


Franco Castellano sfodera i suoi toni aggressivi nel tentativo di difendere il suo ruolo di marito fedifrago, Maria Letizia Gorga è esilarante nei panni della moglie risentita che ben nasconde il suo cuore tenero in una corazza di sdegno usata come un’arma, Maximilian Nisi rivela un’immagine inedita nel look british messo a dura prova dai comportamenti dalle bugie della giovane amante, una spumeggiante e carinissima Ketty Roselli, che costruisce un castello di menzogne per evitare l’ufficialità delle nozze. 


Il vero protagonista di tante rocambolesche avventure che si succedono sul palco è certamente l’amore, sviscerato col sorriso in tutti i suoi aspetti più bollenti e deflagranti. Ognuno si finge quello che non è, ribalta la sua immagine nelle aspettative altrui, indossa maschere in cui non si identifica. Il sentimento più nobile dell’uomo sposa la tecnica scenica in un continuo dialogo di specchi deformanti che non restituiscono mai una sola verità, ma le sue infinite e relative parcellizzazioni. Si ride tanto e poi si rimane con un ghigno sul volto perché il finale non è conciliante: la doppia coppia scoppia in moltiplicate solitudini e anche gli spettatori si riconoscono inevitabili tentazioni da single.
Il delicato e nostalgico clima anglosassone, ben restituito dalla drammaturgia e dalla recitazione, non basta ad allontanare le conseguenze di questa ludica quanto profonda riflessione e lascia scoprire il disagio comunicativo degli esseri umani di qualunque latitudine spaziale e di ogni datazione temporale.
Vince ancora una volta la potenza immensa del teatro che ci permette di immedesimarci con o senza catarsi.

venerdì 3 ottobre 2014

Arnaldo Pomodoro. Spazi scenici e altre architetture

Antonio Calbi celebra l'incontro fra Arnaldo Pomodoro e il teatro

Spirito eclettico rinascimentale e genio organizzativo contemporaneo, il neodirettore del Teatro di Roma Antonio Calbi ha anche ideato, curato e promosso la mostra Arnaldo Pomodoro. Spazi scenici e altre architetture, ambientata presso il CAOS (Centro Arti Opificio Siri) di Terni dall'11 ottobre al 18 gennaio.

Merita una visita speciale questa esposizione grandiosa e ricchissima che cattura lo spettatore nell'universo del meraviglioso di una concezione scenica barocca e avveniristica al tempo stesso.

L'artista di fama internazionale è qui svelato in un itinerario poco conosciuto del suo lavoro, documentando oltre 50 anni di progettazione di spazi scenici e della dimensione monumentale e urbana fra sculture, scenografie, modellini, costumi e studi architettonici.

Modellino della scena finale con il grande disco per Madama Butterfly di Giacomo Puccini, Torre del Lago Puccini, Gran Teatro all’aperto, 2004 
(foto Aurelio Barbareschi)

E' dal 1972, infatti, che ha avuto inizio la sua assidua collaborazione con il teatro, la lirica e la danza con oltre 50 progetti della scena che non costituiscono di certo incursioni estemporanee. Nel solco della visione registica di Craig e di Appia, Pomodoro non considera lo spazio scenico figlio della finzione in un'ostentata volontà di rappresentazione del reale, bensì un ambito in cui sperimentare soluzioni materiche e volumetriche con elementi simbolici, metafisici, tridimensionali e praticabili a cui si aggiunge il tempo, grazie al movimento. Le scenografie diventano così vere e proprie regie che contribuiscono alla temperatura e alla riuscita dello spettacolo, vincolando gli attori in posizioni non sempre comode, ma di sicuro effetto visivo ed emotivo sul pubblico.

Le Vespe di Aristofane, Siracusa, Teatro Greco, 2014. Un momento dello spettacolo 
(foto Tommaso Le Pera)

Noto per obelischi, sfere e steli, Pomodoro concepisce una scultura in grado di rivelare la struttura molecolare delle forme e le sue opere non si possono limitare all'arredo urbano in quanto sono elaborate in stretta e sinergica relazione con il contesto ambientale e non nell'ottica del laboratorio in cui nascono.
L'artista è legato alla città di Terni, che ora gli rende questo fantastico tributo, in virtù dell'opera Lancia di luce, concepita nel 1995 per Piazza del Popolo, per indicare in un unico simbolo l'idea dell'evoluzione tecnologica e la pregnanza storica delle acciaierie, nonché per il Carapace, la cantina commissionata dalla famiglia Lunelli per la Tenuta Castelbuono di Bevagna.


Carapace, 2005-2012. Veduta della cantina nella Tenuta Castelbuono, Bevagna 
(foto Dario Tettamanzi)


Si ammira in quest'ultimo caso l'atterraggio sulla natura umbra di una struttura, un po' corazza di tartaruga un po' ufo, rivestita di rame, riprendendo il colore delle viti d'autunno con costoloni e vetrate disposte a un dialogo evidente fra interno ed esterno. Dai filari si approda verso il luogo in cui il vino riposa. Una scala a chiocciola perfora lo spazio e introduce nella cantina come in una specie di utero in una dimensione simile a quella realizzata per Oreste di Alfieri con Gabriele Lavia al Teatro Argentina di Roma.

Oreste di Vittorio Alfieri, Roma, Teatro Argentina, 1993. Un momento dello spettacolo 
(foto Tommaso Le Pera)

"Arnaldo è sensibile e attento all'attualità più di ogni altro" ha commentato Antonio Calbi. "Si addolora per tutto quello che accade nel mondo, forse perché dall'alto dei suoi 88 anni, ha conosciuto un momento culturale florido e soffre le criticità che la nostra nazione esprime. Da giovane ha studiato da geometra e ha lavorato nel Genio Civile, nelle Marche del dopoguerra, per la ricostruzione degli edifici pubblici distrutti. Sin dalle sue prime esercitazioni, ha quindi dato segno di quella texture e di quel linguaggio simbolico che attinge alla Mesopotamia e all'antichità.

L'Orestea di Gibellina - Agamènnuni di Emilio Isgrò da Eschilo, Gibellina, Ruderi, 1983. Un momento dello spettacolo con la Rotella fantastica 
(foto Patrizio Nesi)

Da piccolo ha inoltre assistito lo zio, siparista del Teatro Galli di Rimini, mai ricostruito. Ha vissuto così l'atmosfera di un teatro d'Opera, con tanto di scenografie e costumi. Franco Quadri gli fece incontrare Luca Ronconi, il più visionario dei nostri registi, malato della stessa grandeur di Pomodoro. Ne nacque l'evento mai rappresentato di Caterina di Heilbronn di Kleist che nel 1972 doveva restituire questa tragedia della follia sulle acque del lagodi Zurigo con gli spettatori che seguivano gli attori navigando su zattere. La rottura di una fune d'acciaio indusse la commissione di vigilanza a proibire il debutto e lo spettacolo venne così ridimensionato per una versione al chiuso. Da allora il teatro è diventato una costante nella sua vita artistica con risultati sorprendenti. Dorfles ha coniato per Pomodoro l'espressione "architettonizzazione" dello spazio a suggellare il suo fitto e continuo dialogo con gli elementi naturali e con gli ambienti".

Info: http://caos.museum


Regina Madre

Tragedia edipica dei nostri giorni

E' una perla della drammaturgia contemporanea Regina Madre di Manlio Santanelli, non a caso rappresentato in tutto il mondo da anni e al suo debutto recensito perfino da Ionesco. A offrirne un'edizione di tutto rispetto e rara intensità, perfettamente sospesa fra brillantezza comica e profondità drammatica è l'inedita coppia scenica formata da Milena Vukotic e Antonello Avallone, che firma anche la regia, fino al 19 ottobre al Teatro dell'Angelo.


Una madre, un figlio, un appartamento. Un incontro scontro di amore e odio che sintetizza ogni ossimoro. Passato, presente e futuro si richiamano, si contraddicono, si ribaltano in un gioco continuo tra finzione e realtà che allude al teatro e ne coglie la quintessenza più emozionante. L'anziana donna è lucidamente spietata nei suoi commenti sul figlio cinquantene che tutto sommato considera indegno dell'esaltato modello paterno, idealizzato e rimpianto. Il figlio ricambia crudeltà per difendersi e sopravvivere, giustificando anche a se stesso una necessità di un esistere che tuttavia poco lo convince. Milena Vukotic è superlativa nella sua apparente svagatezza, nella leggiadria del portamento che stride con la potenza verbale, nello slancio surreale che trasmette atroci verità. Antonello Avallone è incisivo e convincente nel ruolo, dosando meravigliosamente stupore, sconforto, complicità, rancore, sarcasmo e dolore, in un corpo a corpo dialettico che parte da una conversazione di trascinante ironia per mutarsi lentamente in un'autentica e mai sbandierata tragedia. Beato lo spettatore che può non riconoscersi in questi personaggi, ritratti senza veli di microcosmi emotivi domestici squarciati nella loro crudezza. Il legame edipico supera qui la visione classica e  lo stereotipo moderno per diventare l'espressione di una società malata, di un ribaltamento epocale in cui la battaglia si fa così dura e contronatura da autorizzare i genitori al sacrificio dei propri figli. Questo novello patetico e anabilissmo Edipo soccomberà, mentre la madre, sia pure malata, incombe e resiste, attaccata alla vita quanto una regina al suo regno, impossibilitata ad abdicare in favore della prole. Uno spettacolo appassionante, completo, riuscito, godibile attimo dopo attimo nella sua forza catartica affidata a un testo di pregevole ed esemplare sapienza nonché a una coppia di interpeti che merita ulteriori occasioni.

lunedì 17 maggio 2010

Il dolore

Epifania del dolore umano

L’atroce “banalità del male” del Novecento ha la voce e il corpo di Mariangela Melato nella trasposizione scenica dello straziante libro Il dolore di Marguerite Duras, firmata dalla stessa attrice e dal regista Massimo Luconi. Piccolo e prezioso capolavoro teatrale, il monologo sintetizza in poco più di un’ora l’esperienza devastante dell’attesa vissuta dalla scrittrice francese in occasione dell’auspicato e, mai certo, ritorno del marito Robert, deportato a Dachau. Il mistero sull’eventualità di un prossimo incontro, il panico per un destino segnato non conoscibile, l’impotenza umana e soprattutto femminile davanti a un mondo ingiusto che sacrifica le sue creature sono incarnate dalla più completa e travolgente delle interpreti del nostro panorama scenico con una prova che supera ogni perfezione tecnica per fluire naturalmente nella dimensione emblematica dell’arte.

Recitano il fisico emaciato, la parola scarnificata, l’emotività nuda e fragilissima, la gestualità autentica, l’aura smarrita alla ricerca della condivisione empatica con il pubblico, in un lavoro che diventa confessione, preghiera, urlo dell’anima. Mariangela Melato si fonde con l’avventura esistenziale della Duras e la sublima in travaglio cosmico, universale, alieno da connotazioni spaziali e temporali, e radicato profondamente nella vita delle donne di ogni epoca, ma anche nelle vittime innocenti di ogni guerra, nei personaggi attoniti e stritolati di ogni tragedia.

Nel silenzio di Dio, il nemico è il male, ineffabile, con cui la battuta teatrale da millenni si confronta a sondare il suo limite metafisico e comunicativo. Eppure il palcoscenico vince ancora una volta la sua battaglia contro la società che lo produce e lo ghettizza perché la gente che solitamente non ha voglia di ascoltare è lì presente, concentrata e coinvolta, responsabile e accogliente, bramosa di assistere a una cerimonia inusitata e di celebrare un “rito culturale” di cui forse non potrà più fare a meno. La sacerdotessa che ha annullato la storia per parlare dell’umano in un eterno presente ha il volto e il talento della minuta e immensa Mariangela Melato che officia in un istintivo e perciò stupefacente e generoso dono di sé.

Gli applausi scroscianti la chiamano all’infinito e lei si concede di frenarli per ringraziare una platea che ha percepito viva e complice: la magia del teatro si è compiuta e qualche anima è stata salvata dall’incoscienza. E’ la purezza dell’arte, unico strumento di sopravvivenza contro il dolore, unico baluardo umano contro il male.


AL TEATRO VALLE DI ROMA FINO AL 23 MAGGIO

mercoledì 12 maggio 2010

Fiorello Show Tour

Fiorello è puro teatro

Emblema dell’artista scenico contemporaneo, poliedrico e funambolico istrione di inarrivabile talento, Fiorello registra il tutto esaurito in ogni tappa del suo “Fiorello Show Tour”. A dispetto dell’ingratitudine del piccolo schermo, a cui ha regalato esperienze memorabili insegnando come usare lo strumento televisivo a chi da troppo tempo lo presidia e non ha neppure imparato nulla, il pubblico premia il suo beniamino con gli ascolti radiofonici e soprattutto con la presenza record a tutte le sue performance sul palcoscenico. 250 mila persone hanno già assistito a questo spettacolo che ha una struttura incentrata su un filo narrativo di base, ma non si presenta mai uguale a se stesso, attingendo al guizzo creativo del suo protagonista. Cantante, comico, imitatore, ma soprattutto mattatore ineguagliato di inconsapevole sapienza espressiva e di lungimirante modernità, Fiorello sa come rendere originale ogni serata, nutrendosi della sua ispirazione del momento in un flusso di storie e brani musicali che sanno emozionare e coinvolgere gli spettatori per oltre due ore con un ritmo serrato e travolgente, destinato a lasciare tutti senza fiato. Accompagnato dal maestro Enrico Cremonesi e dalla sua orchestra, una band composta da dodici elementi, riesce a trasformare gli eventi dell’attualità e gli aspetti del quotidiano in passaggi geniali ed esilaranti di satira, viaggiando fra i paradossi della nostra società con ironia garbata, acuta e graffiante, non aliena da una meditata interpretazione della realtà. Il racconto si sviluppa in una tessitura di gag e aneddoti di vita vissuta, spaziando fra canzoni di ieri e di oggi, magistralmente eseguite dalla più duttile e versatile delle voci italiane.

Immancabile la vivacità estemporanea dell’improvvisazione in cui Fiorello è un maestro proverbiale e sublime, mai prevedibile e straordinariamente unico nel suscitare l’ilarità senza ricorrere a toni o battute volgari. Nella cornice tecnologica di una scenografia all’avanguardia e ricca di un sofisticato gioco di luci, ledwall ed ologrammi, si racconta la storia dell’Italia, dal passato al presente, con un excursus sull’evoluzione della canzone nazionale. Diretto dalla sorvegliata e poco invadente regia di Giampiero Solari, il “Fiorello Show Tour” ha come motore centrale tutta la caleidoscopica dimestichezza con l’esibizione dal vivo di un artista autentico e completo come ne esistono davvero pochi in questi ultimi anni, ma si avvale anche dell’impegno dietro le quinte di una squadra di autori che lo assecondano da anni, formata da Francesco Bozzi, Riccardo Cassini, Alberto Di Risio e Federico Taddia, con la collaborazione ai testi di Pierluigi Montebelli. Da non perdere!

Il Fiorello Show Tour, prodotto dalla Live Tour, ancora oggi si va arricchendo di nuove date e, dopo aver fatto ritorno già in 7 città, nei prossimi mesi, farà tappa: il 29 maggio a Bari, il 4 e 5 giugno a Napoli, il 12 giugno a Piazzola sul Brenta (PD), il 18 giugno a Trieste, il 25 giugno ad Ancona, il 4 luglio a Lucca, il 9 luglio a Cagliari, il 10 settembre a Palermo.

giovedì 6 maggio 2010

Copenaghen

Tre attori perfetti per un caso scientifico irrisolto

E’ sicuramente “un processo privato a porte chiuse”, come ama definirlo il suo regista Mauro Avogadro, ma è ormai soprattutto uno spettacolo di culto “Copenaghen” di Michael Frayn, capolavoro scenico di un trittico d’interpreti d’eccezione come Umberto Orsini, Giuliana Lojodice e Massimo Popolizio che fin dal suo debutto all’India dieci anni fa ha messo d’accordo la critica meno reazionaria e asservita e il pubblico più scaltro e appassionato.
Niels Bohr (Orsini) e Werner Heisenberg (Popolizio) sono due delle più brillanti menti scientifiche del ventesimo secolo e la questione nodale della pièce è trovare finalmente un senso all’incontro che nel settembre 1941 li vide faccia a faccia nella capitale danese, mentre attorno a loro infuriava la seconda guerra mondiale. Ancora oggi, quando i loro spiriti tornano a rivivere i momenti cruciali di quella notte fatale, insieme a Margrethe, la moglie di Bohr, molti degli interrogativi di allora sembrano restare irrisolti o “indeterminati”, come l’omonimo principio fisico che lo stesso Heisenberg enunciò per primo. Perché Heisenberg, il fisico Premio Nobel che diresse le ricerche tedesche per la bomba atomica, si recò a incontrare il suo vecchio mentore, il fisico Niels Bohr, un ebreo danese, cittadino scomodo in una Copenaghen occupata dai nazisti?

Miracoloso e magico confronto tra scienza e teatro, fra documentazione storica e fantasia drammatica, fra indagine psicologica e talento recitativo, questo lavoro apre una nuova prospettiva al panorama scenico italiano, proiettandolo in una dimensione internazionale.
Nell’impossibilità di chiarire in maniera inequivocabile le ragioni di un appuntamento avvolto dal mistero, l’allestimento dimostra tuttavia quanto il teatro possa essere il mezzo ideale per parlare e riflettere su temi importanti e attuali in una trama da thriller scientifico che ripercorre la storia dell’ultimo conflitto mondiale. Fra teorie, formule e disquisizioni sottilmente scientifiche, lo spettatore è chiamato a rivivere i dilemmi di chi, con i suoi studi e la sua esperienza personale, ha dovuto fare i conti con la sostanziale fuggevolezza della verità e del senso delle cose, e a porsi gli stessi interrogativi morali o le medesimi questioni cruciali.
Il tutto assicurato dalla complicità di tre delicati, sensibili e travolgenti attori che affidano le loro doti innate e acquisite alla qualità del disegno registico di Mauro Avogadro, un tracciato studiato per rendere espliciti i diversi piani narrativi e i molteplici intrecci in cui si sviluppa la drammaturgia, con cui si realizza felicemente un’operazione che conferma al teatro il privilegio di essere un luogo d’elezione per riscoprire il valore e la forza delle relazioni umane.

AL TEATRO ELISEO DALL'11 AL 23 MAGGIO

Arnoldo Foà, Autobiografia di un artista burbero, Sellerio, 2009

Ritratto di un eterno ragazzo

Si legge tutto d’un fiato, in ordine cronologico o aprendo a caso, il libro schietto e credibile a cui Arnoldo Foà ha donato le sue memorie di uomo prima ancora che di artista. Dall’infanzia alla scoperta traumatica e inaspettata della persecuzione in quanto ebreo, dagli impegni teatrali sotto falso nome per sfuggire alle leggi razziali alla gloria di palcoscenico, cinema e televisione, dagli amori travolgenti e passionali ai sacrifici economici, il percorso di una lunga vita si snoda rapido e incisivo, grazie a uno stile parlato diretto quanto accurato e pertinente. Si incontra così una figura consapevole e indipendente che attraversa l’esistenza con coraggio e infinita levità, non lasciandosi mai contaminare dagli altri, anche i più amati, né dalla fama e dal successo.


Foà si rivela prima tutto attaccato ai valori essenziali dell’umanità, dimostrando di saper rinunciare a ogni garanzia materiale e di poter ricominciare da capo dopo ogni sconfitta. Indomito e umile, eppure mai servile anche quando difendere la sua integrità significa perdere la protezione di registi o colleghi importanti, non è disposto a tradire le sue idee o la sua natura caratteriale, affrontando la professione con scrupolo, zelo e perfezionismo, senza tuttavia diventare mai schiavo della notorietà. Ogni persona che si affaccia al rapporto con lui viene descritta nella sua autenticità, tenendosi lontano da giudizi ed etichette, in un mutuo scambio di esperienze che diventa crescita comune nel reciproco rispetto della propria diversità. E nelle pagine scorre la linfa di tanta storia del nostro travagliato Paese in sintonia con una deliziosa ricostruzione dei tempi d’oro del teatro italiano: Foà è l’anziano saggio che la narra ai posteri, ma scopre soprattutto la sua immagine di artista, eterno bambino che prova stupore e curiosità per il mondo. Si definisce "burbero" per la sua esigenza di correttezza e verità, in realtà è "benefico" nella sua necessità di esprimersi senza dare lezioni a nessuno, non indulgendo alla potenza da mattatore e consegnandosi a quell’immortalità che soltanto l’arte ha per scopo.