giovedì 27 dicembre 2018

Mariano Rigillo: un padre da presentare

Nella squallida banalità della commedia, intesa come genere di facile ammiccamento e soprattutto abboccamento del pubblico, si distingue per qualità della macchina drammaturgica e per professionalità impeccabile degli interpreti "Vi presento papà" di Augusto Fornari, Toni Fornari, Andrea Maia e Vincenzo Sinopoli che coinvolge Mariano Rigillo, Anna Teresa Rossini, Giancarlo Ratti, Stefano Sarcinelli, Claudia Campagnola e Irene De Matteis, diretti da Toni Fornari.




Tutto comincia per un'intervista a un cineasta passato da primi contributi intellettuali e controcorrente a film di cassetta di sicuro introito economico. L'artista è impersonato con una misura d'antica sapienza e uno stile inconfondibile di sobria autenticità da Mariano Rigillo, interprete versatile e intelligente che di rado frequenta il genere comico e invece se ne dimostra sagace icona con il suo talento inimitabile nel rifuggire impulsi sfrenati da mattatore, convincendo con la sostanza meditata e calibrata di una vera immedesimazione nel personaggio. Ed è qui, infatti, il protagonista contraddittorio che funziona da perno per azioni e agnizioni di cui non va svelato troppo perché l'originalità del testo sta proprio nel proseguire su traiettorie inaspettate e imprevedibili che virano l'indubbia brillantezza della rappresentazione verso l'opportunità di più serie riflessioni. Giancarlo Ratti si muove con consapevolezza e disinvoltura nei panni del critico cinematografico che difende la specificità culturale del suo ruolo almeno quanto Stefano Sarcinelli sa dipingere la figura più modaiola e disinibita del giornalista tutto slogan e social. Ogni intervento di Anna Teresa Rossini suggella le dinamiche sottese di un legame ambiguo col regista: l'eleganza sinuosa e seducente dell'attrice si sposa con le sotterranee vibrazioni di un personaggio che parla poco, ma conta molto nella vita del protagonista quanto nell'economia dell'allestimento. Claudia Campagnola è l'incisiva Chiara, figlia del cineasta, che ha architettato l'incontro con i due esponenti della stampa per uno scopo ultimo molto privato che costituirà il colpo di scena. A Irene De Matteis spetta il decisivo compito della figlia del giornalista meno colto con spaccati e siparietti familiari di potente icasticità. Ecco finalmente realizzata la quintessenza del teatro con un copione vincente, ben congeniato, spumeggiante e profondo al tempo stesso che consente ad attori di indubbio pregio di mettere in luce le loro poliedriche sfumature emotive, caratteriali e recitative. Il pubblico è intimamente coinvolto, ride di gusto e senza doversi vergognare, a dimostrazione che non servono volgarità e cadute di tono per trascorrere una memorabile e graditissima serata in platea. Onore al Teatro Golden per aver offerto il suo spazio anticonvenzionale a questa speciale messa in scena che però riuscirebbe a funzionare benissimo anche in un teatro con la quarta parete per la sua innata capacità di ammaliare e stimolare lo spettatore pure se non immesso direttamente nella realtà presentata come è avvenuto in questo caso. Un esempio di ottima confezione scenica, priva di artifico e intrisa di urgenza, che afferma l'esistenza di una vivace e consapevole autorialità, supportata e realizzata a meraviglia da una compagnia ben assortita.

lunedì 6 ottobre 2014

Mario Sironi 1885-1961



La lezione di tragedia di Mario Sironi

E’ una retrospettiva in grande stile la mostra Mario Sironi 1885-1961, inaugurata il 4 ottobre al Complesso del Vittoriano, dove rimarrà fino all’8 febbraio, e curata da Elena Pontiggia.

Novanta dipinti, bozzetti, riviste e un importante carteggio col mondo della cultura del Novecento compongono un’esposizione che parte dalle creazioni giovanili fino ad arrivare alle opere degli ultimi giorni per far conoscere meglio un artista di statura europea, rimasto probabilmente penalizzato dalla sua vicinanza al fascismo.


“Per me la sua pittura è una lezione di tragedia… Non c’è pittore che valga i suoi quadri” scriveva Gianni Rodari, suo amico personale, nonché suo vero salvatore in quanto impedì che Sironi venisse giustiziato in una rappresaglia partigiana.
“L’Arte non ha bisogno di riuscire simpatica, ma esige grandezza, altezza di principi” era il principio ispiratore di Mario Sironi che aderì al fascismo nella speranza di esaltare la funzione educatrice della creatività, votandosi a una fruizione popolare dell’opera d’arte attraverso la pittura murale e il mosaico, democraticamente rivolti alla società nel suo insieme. Lontano però dai compiacimenti opportunistici e dalla visioni trionfalistiche della propaganda, il punto di vista sulla realtà di questo originale artista è antigrazioso, enigmatico, perturbante, vicino alla ricerca della verità storica, alla presa di coscienza del destino umano, alla scoperta della caducità esistenziale e della fatica angosciosa dell’impegno quotidiano. I suoi soggetti soffrono in una ieratica umiltà che si nutre di un’etica austera e spesso disperata. 


Poco incline alla retorica dei suoi anni e privo di velleità eroiche, come quando decise di rimanere nella sua casa di Milano sotto i bombardamenti per non lasciar morire da solo un pipistrello che vi aveva trovato rifugio, Sironi rivisitò i modelli prerinascimentali, proseguendo la lezione di Boccioni con virate espressioniste e incursioni sublimi nella neometafisica.



Oltre venticinque bozzetti rappresentano la sua intensa collaborazione con la Fiat, insieme a tante copertine di riviste, proprio a conferma della sua intenzione di mettersi a servizio di un godimento collettivo dell’arte.
Un percorso di stupefacente ricchezza, per la quantità dei materiali offerti al pubblico, rivela luci e ombre di un passato con cui dobbiamo imparare a fare i conti come già accadde a questo artista dal respiro internazionale.


Le mille facce di una personalità inquieta, in bilico tra fascinazioni e delusioni, fra esaltazioni e fallimenti, tra classicità e contemporaneità, ripropongono nelle sale del Vittoriano gli interrogativi senza risposta della nostra vicenda italica che oggi più che mai apre baratri profondi di insicurezza. Non a caso, l’ultima opera, autentico testamento spirituale, è proprio l’Apocalisse, datata 1961, proveniente da una collezione privata.
Tra presentimento, delirio mistico e aspirazione all’altrove, Mario Sironi diventa oggi più complice che mai della deriva solitaria, lacerante e forse inevitabile di una nazione che avrebbe potuto essere gloriosa.

domenica 5 ottobre 2014

Uscirò dalla tua vita in taxi


Un taxi per doppia coppia in fuga

Il successo internazionale di K. Waterhouse e W. Hall Uscirò dalla tua vita in taxi, al Teatro Ghione fino al 12 ottobre, si avvale dell'adattamento e della regia di Pino Ammendola, un autore che di ingranaggi e ritmi comici se ne intende bene da anni e ha ora deciso di offrire al pubblico italiano una sua versione della nota e collaudata macchina scenica.


Complice un quartetto d’interpreti perfetto nei ruoli e nelle dinamiche, formato da Franco Castellano, Maria Letizia Gorga, Maximilian Nisi e Ketty Roselli, si anima un gioco di equivoci, scambi, colpi di scena e soluzioni imprevedibili che mette in risalto la quintessenza del teatro brillante. 


Resta in piedi l’ambientazione inglese, con tanto di colonna sonora dei Beatles, in una scenografia essenziale ed evocativa con cabina telefonica rossa ed elenco degli abbonati d’epoca, affidando agli attori il non facile compito di cimentarsi con uno stile vagamente d’altri tempi per affrontare tematiche eterne come l’amore. Un appartamento prestato in segreto per appuntamenti clandestini, un matrimonio perennemente in crisi per le scappatelle del consorte e un legame che non s’ha da fare per timore di perdere la propria libertà fra coniugi reali o inventati mescola le carte di una partita a quattro senza vincitori né vinti. Solidarietà maschili e femminili si creano e si distruggono in un profluvio incandescente di battute spietate anche se mai volgari. 


Franco Castellano sfodera i suoi toni aggressivi nel tentativo di difendere il suo ruolo di marito fedifrago, Maria Letizia Gorga è esilarante nei panni della moglie risentita che ben nasconde il suo cuore tenero in una corazza di sdegno usata come un’arma, Maximilian Nisi rivela un’immagine inedita nel look british messo a dura prova dai comportamenti dalle bugie della giovane amante, una spumeggiante e carinissima Ketty Roselli, che costruisce un castello di menzogne per evitare l’ufficialità delle nozze. 


Il vero protagonista di tante rocambolesche avventure che si succedono sul palco è certamente l’amore, sviscerato col sorriso in tutti i suoi aspetti più bollenti e deflagranti. Ognuno si finge quello che non è, ribalta la sua immagine nelle aspettative altrui, indossa maschere in cui non si identifica. Il sentimento più nobile dell’uomo sposa la tecnica scenica in un continuo dialogo di specchi deformanti che non restituiscono mai una sola verità, ma le sue infinite e relative parcellizzazioni. Si ride tanto e poi si rimane con un ghigno sul volto perché il finale non è conciliante: la doppia coppia scoppia in moltiplicate solitudini e anche gli spettatori si riconoscono inevitabili tentazioni da single.
Il delicato e nostalgico clima anglosassone, ben restituito dalla drammaturgia e dalla recitazione, non basta ad allontanare le conseguenze di questa ludica quanto profonda riflessione e lascia scoprire il disagio comunicativo degli esseri umani di qualunque latitudine spaziale e di ogni datazione temporale.
Vince ancora una volta la potenza immensa del teatro che ci permette di immedesimarci con o senza catarsi.

venerdì 3 ottobre 2014

Arnaldo Pomodoro. Spazi scenici e altre architetture

Antonio Calbi celebra l'incontro fra Arnaldo Pomodoro e il teatro

Spirito eclettico rinascimentale e genio organizzativo contemporaneo, il neodirettore del Teatro di Roma Antonio Calbi ha anche ideato, curato e promosso la mostra Arnaldo Pomodoro. Spazi scenici e altre architetture, ambientata presso il CAOS (Centro Arti Opificio Siri) di Terni dall'11 ottobre al 18 gennaio.

Merita una visita speciale questa esposizione grandiosa e ricchissima che cattura lo spettatore nell'universo del meraviglioso di una concezione scenica barocca e avveniristica al tempo stesso.

L'artista di fama internazionale è qui svelato in un itinerario poco conosciuto del suo lavoro, documentando oltre 50 anni di progettazione di spazi scenici e della dimensione monumentale e urbana fra sculture, scenografie, modellini, costumi e studi architettonici.

Modellino della scena finale con il grande disco per Madama Butterfly di Giacomo Puccini, Torre del Lago Puccini, Gran Teatro all’aperto, 2004 
(foto Aurelio Barbareschi)

E' dal 1972, infatti, che ha avuto inizio la sua assidua collaborazione con il teatro, la lirica e la danza con oltre 50 progetti della scena che non costituiscono di certo incursioni estemporanee. Nel solco della visione registica di Craig e di Appia, Pomodoro non considera lo spazio scenico figlio della finzione in un'ostentata volontà di rappresentazione del reale, bensì un ambito in cui sperimentare soluzioni materiche e volumetriche con elementi simbolici, metafisici, tridimensionali e praticabili a cui si aggiunge il tempo, grazie al movimento. Le scenografie diventano così vere e proprie regie che contribuiscono alla temperatura e alla riuscita dello spettacolo, vincolando gli attori in posizioni non sempre comode, ma di sicuro effetto visivo ed emotivo sul pubblico.

Le Vespe di Aristofane, Siracusa, Teatro Greco, 2014. Un momento dello spettacolo 
(foto Tommaso Le Pera)

Noto per obelischi, sfere e steli, Pomodoro concepisce una scultura in grado di rivelare la struttura molecolare delle forme e le sue opere non si possono limitare all'arredo urbano in quanto sono elaborate in stretta e sinergica relazione con il contesto ambientale e non nell'ottica del laboratorio in cui nascono.
L'artista è legato alla città di Terni, che ora gli rende questo fantastico tributo, in virtù dell'opera Lancia di luce, concepita nel 1995 per Piazza del Popolo, per indicare in un unico simbolo l'idea dell'evoluzione tecnologica e la pregnanza storica delle acciaierie, nonché per il Carapace, la cantina commissionata dalla famiglia Lunelli per la Tenuta Castelbuono di Bevagna.


Carapace, 2005-2012. Veduta della cantina nella Tenuta Castelbuono, Bevagna 
(foto Dario Tettamanzi)


Si ammira in quest'ultimo caso l'atterraggio sulla natura umbra di una struttura, un po' corazza di tartaruga un po' ufo, rivestita di rame, riprendendo il colore delle viti d'autunno con costoloni e vetrate disposte a un dialogo evidente fra interno ed esterno. Dai filari si approda verso il luogo in cui il vino riposa. Una scala a chiocciola perfora lo spazio e introduce nella cantina come in una specie di utero in una dimensione simile a quella realizzata per Oreste di Alfieri con Gabriele Lavia al Teatro Argentina di Roma.

Oreste di Vittorio Alfieri, Roma, Teatro Argentina, 1993. Un momento dello spettacolo 
(foto Tommaso Le Pera)

"Arnaldo è sensibile e attento all'attualità più di ogni altro" ha commentato Antonio Calbi. "Si addolora per tutto quello che accade nel mondo, forse perché dall'alto dei suoi 88 anni, ha conosciuto un momento culturale florido e soffre le criticità che la nostra nazione esprime. Da giovane ha studiato da geometra e ha lavorato nel Genio Civile, nelle Marche del dopoguerra, per la ricostruzione degli edifici pubblici distrutti. Sin dalle sue prime esercitazioni, ha quindi dato segno di quella texture e di quel linguaggio simbolico che attinge alla Mesopotamia e all'antichità.

L'Orestea di Gibellina - Agamènnuni di Emilio Isgrò da Eschilo, Gibellina, Ruderi, 1983. Un momento dello spettacolo con la Rotella fantastica 
(foto Patrizio Nesi)

Da piccolo ha inoltre assistito lo zio, siparista del Teatro Galli di Rimini, mai ricostruito. Ha vissuto così l'atmosfera di un teatro d'Opera, con tanto di scenografie e costumi. Franco Quadri gli fece incontrare Luca Ronconi, il più visionario dei nostri registi, malato della stessa grandeur di Pomodoro. Ne nacque l'evento mai rappresentato di Caterina di Heilbronn di Kleist che nel 1972 doveva restituire questa tragedia della follia sulle acque del lagodi Zurigo con gli spettatori che seguivano gli attori navigando su zattere. La rottura di una fune d'acciaio indusse la commissione di vigilanza a proibire il debutto e lo spettacolo venne così ridimensionato per una versione al chiuso. Da allora il teatro è diventato una costante nella sua vita artistica con risultati sorprendenti. Dorfles ha coniato per Pomodoro l'espressione "architettonizzazione" dello spazio a suggellare il suo fitto e continuo dialogo con gli elementi naturali e con gli ambienti".

Info: http://caos.museum


Regina Madre

Tragedia edipica dei nostri giorni

E' una perla della drammaturgia contemporanea Regina Madre di Manlio Santanelli, non a caso rappresentato in tutto il mondo da anni e al suo debutto recensito perfino da Ionesco. A offrirne un'edizione di tutto rispetto e rara intensità, perfettamente sospesa fra brillantezza comica e profondità drammatica è l'inedita coppia scenica formata da Milena Vukotic e Antonello Avallone, che firma anche la regia, fino al 19 ottobre al Teatro dell'Angelo.


Una madre, un figlio, un appartamento. Un incontro scontro di amore e odio che sintetizza ogni ossimoro. Passato, presente e futuro si richiamano, si contraddicono, si ribaltano in un gioco continuo tra finzione e realtà che allude al teatro e ne coglie la quintessenza più emozionante. L'anziana donna è lucidamente spietata nei suoi commenti sul figlio cinquantene che tutto sommato considera indegno dell'esaltato modello paterno, idealizzato e rimpianto. Il figlio ricambia crudeltà per difendersi e sopravvivere, giustificando anche a se stesso una necessità di un esistere che tuttavia poco lo convince. Milena Vukotic è superlativa nella sua apparente svagatezza, nella leggiadria del portamento che stride con la potenza verbale, nello slancio surreale che trasmette atroci verità. Antonello Avallone è incisivo e convincente nel ruolo, dosando meravigliosamente stupore, sconforto, complicità, rancore, sarcasmo e dolore, in un corpo a corpo dialettico che parte da una conversazione di trascinante ironia per mutarsi lentamente in un'autentica e mai sbandierata tragedia. Beato lo spettatore che può non riconoscersi in questi personaggi, ritratti senza veli di microcosmi emotivi domestici squarciati nella loro crudezza. Il legame edipico supera qui la visione classica e  lo stereotipo moderno per diventare l'espressione di una società malata, di un ribaltamento epocale in cui la battaglia si fa così dura e contronatura da autorizzare i genitori al sacrificio dei propri figli. Questo novello patetico e anabilissmo Edipo soccomberà, mentre la madre, sia pure malata, incombe e resiste, attaccata alla vita quanto una regina al suo regno, impossibilitata ad abdicare in favore della prole. Uno spettacolo appassionante, completo, riuscito, godibile attimo dopo attimo nella sua forza catartica affidata a un testo di pregevole ed esemplare sapienza nonché a una coppia di interpeti che merita ulteriori occasioni.

lunedì 17 maggio 2010

Il dolore

Epifania del dolore umano

L’atroce “banalità del male” del Novecento ha la voce e il corpo di Mariangela Melato nella trasposizione scenica dello straziante libro Il dolore di Marguerite Duras, firmata dalla stessa attrice e dal regista Massimo Luconi. Piccolo e prezioso capolavoro teatrale, il monologo sintetizza in poco più di un’ora l’esperienza devastante dell’attesa vissuta dalla scrittrice francese in occasione dell’auspicato e, mai certo, ritorno del marito Robert, deportato a Dachau. Il mistero sull’eventualità di un prossimo incontro, il panico per un destino segnato non conoscibile, l’impotenza umana e soprattutto femminile davanti a un mondo ingiusto che sacrifica le sue creature sono incarnate dalla più completa e travolgente delle interpreti del nostro panorama scenico con una prova che supera ogni perfezione tecnica per fluire naturalmente nella dimensione emblematica dell’arte.

Recitano il fisico emaciato, la parola scarnificata, l’emotività nuda e fragilissima, la gestualità autentica, l’aura smarrita alla ricerca della condivisione empatica con il pubblico, in un lavoro che diventa confessione, preghiera, urlo dell’anima. Mariangela Melato si fonde con l’avventura esistenziale della Duras e la sublima in travaglio cosmico, universale, alieno da connotazioni spaziali e temporali, e radicato profondamente nella vita delle donne di ogni epoca, ma anche nelle vittime innocenti di ogni guerra, nei personaggi attoniti e stritolati di ogni tragedia.

Nel silenzio di Dio, il nemico è il male, ineffabile, con cui la battuta teatrale da millenni si confronta a sondare il suo limite metafisico e comunicativo. Eppure il palcoscenico vince ancora una volta la sua battaglia contro la società che lo produce e lo ghettizza perché la gente che solitamente non ha voglia di ascoltare è lì presente, concentrata e coinvolta, responsabile e accogliente, bramosa di assistere a una cerimonia inusitata e di celebrare un “rito culturale” di cui forse non potrà più fare a meno. La sacerdotessa che ha annullato la storia per parlare dell’umano in un eterno presente ha il volto e il talento della minuta e immensa Mariangela Melato che officia in un istintivo e perciò stupefacente e generoso dono di sé.

Gli applausi scroscianti la chiamano all’infinito e lei si concede di frenarli per ringraziare una platea che ha percepito viva e complice: la magia del teatro si è compiuta e qualche anima è stata salvata dall’incoscienza. E’ la purezza dell’arte, unico strumento di sopravvivenza contro il dolore, unico baluardo umano contro il male.


AL TEATRO VALLE DI ROMA FINO AL 23 MAGGIO